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Ungaretti e l'Allegria
(troppo vecchio per rispondere)
Grenar
2006-06-09 11:04:47 UTC
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Ungaretti e l'Allegria
La voce fragile e forte di un poeta al fronte
Scritto da Grenar (www.grenar.info)


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http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/it/



Lo scenario

La Grande Guerra ha inizio per gli Imperi coloniali il 10 luglio 1914.
L'Italia, giovane regno con un esercito poco attrezzato e male
addestrato, ma pieno di retorica e sogni di gloria, ci entra il 24
maggio 1915. Il giovane soldato Giuseppe Ungaretti è partito come
volontario. Credeva nella necessità della guerra, sperava che fosse
breve e portasse onore alla Patria. Ma non è così. La guerra, per chi
non la fa sui giornali o nei salotti, per chi non è un ricco
privilegiato, un industriale, un ufficiale di alto rango, è solo una
serie infinita di orrori. Come ogni altro essere umano, Ungaretti si
sente fragile, ha paura di morire, è sconfortato. Come ogni altro
soldato, deve combattere in prima linea anche se sa che può morire.
Tanti suoi compagni sono già morti: dissanguandosi lentamente, o in un
attimo, colpiti alla testa o al cuore, una morte che non dà il tempo
nemmeno di chiudere gli occhi.
Il 22 dicembre 1915 Ungaretti riposa, dopo il turno di trincea. Fa
tacere le mitragliatrici instancabili, fa silenzio dentro sé e prova a
scrivere. Forse, poco prima di Natale, sulla Cima Quattro del Carso,
già nevica; ma dalla penna esce una poesia che ha per titolo
"Lindoro di deserto". Eccone un frammento:

Ora specchio i punti di mondo
che avevo compagni
e fiuto l'orientamento

È una riflessione sul cambiamento che lo ha travolto. Il deserto è
tutto interiore, i punti di riferimento sono scomparsi, c'è solo
sabbia attorno a lui. Ma bisogna muoversi, cercare, fiutare, agire.
Bisogna capire quale direzione prendere, pur sapendo che si è «Sino
alla morte in balia del viaggio». Il giorno seguente scrive
"Veglia":

VEGLIA

Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Tra le due poesie c'è un abisso. Lo stile è quello che Ungaretti ha
sviluppato già prima della guerra: il verso spezzato, ridotto persino
in sillabe isolate o in parole di servizio (di, una, come, e); la
punteggiatura soppressa, sull'esempio dei futuristi e di Apollinaire;
l'uso dell'analogia cara ai simbolisti, cioè l'accostamento di
immagini tra loro lontane, che fondendosi rivelano una nuova immagine,
non descrivibile con parole comuni; e infine l'iniziale maiuscola,
che mantiene il legame con il passato e la tradizione.
La rivelazione del cambiamento è tutta nel significato. Il canto
soffre come l'uomo da cui si genera. La serie di participi (buttato,
massacrato, digrignata, penetrata) schiaccia ogni gesto d'azione, il
soldato subisce ciò che vede e basta, la notte di guerra è la più
lunga delle notti. È una poesia dalle sonorità aspre (provate a
leggerla a voce alta [1]), è cruda e tenera al tempo stesso.
E allora, per capire quanto sia cambiato quell'uomo che canta e
piange, dobbiamo fare un passo indietro e scoprire chi fosse prima, e
spiare le mosse che lo hanno portato sin qui.

L'ultimo inizio

Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, ai confini
col deserto. Rimane orfano del padre, operaio al lavoro nel canale di
Suez, a poco più di un anno. Dagli otto ai sedici anni va a scuola dai
Salesiani. Questa educazione forse troppo severa e religiosa lo spinge
nella direzione opposta: a vent'anni Ungaretti si dichiara ateo e si
lega agli ambienti anarchici. È l'inizio di un lungo percorso. A
ventiquattro anni è a Parigi, la capitale mondiale della cultura.
Studia per due anni all'università della Sorbona, ma non si laurea;
ha familiarità con le avanguardie, con il poeta Apollinaire
soprattutto; legge il "Manifesto del Futurismo" (1909) di Filippo
Tommaso Marinetti, in cui il fondatore del movimento artistico dichiara
apertamente che la poesia deve glorificare la guerra, perché «sola
igiene del mondo». Si avvicina ai poeti simbolisti, Mallarmé su
tutti. Assorbe retorica anche da Gabriele D'Annunzio, già allora
vate e cantore dell'Italia in armi ("Canzoni delle gesta
d'oltremare", 1911-12).
La sua voce poetica cresce in questo particolare humus culturale,
composto di rotture con il passato e nostalgie, nazionalismi e augurio
di rovina delle nazioni, attesa e azione, esaltazione dell'atto di
forza e ripiegamento in sé; e quindi non ha ancora una forma stabile,
non può averne [2]. Come, d'altra parte, non ha forma la sua vita:
Ungaretti è senza denaro, quasi un bohémien; è infelice, come tutta
la sua generazione; cerca una ragione di vita, un'identità, una
causa; perde un amico d'infanzia, Moammed Sceab, che muore suicida;
incontra una donna, Jeanne Dupoix, che poi sposerà e amerà
moltissimo. Le sue prime poesie appaiono sulla rivista "La Voce",
diretta da Prezzolini, e sono del 1914; scrive anche per la rivista
"Lacerba" di Papini. Una poesia in particolare, "Agonia",
rappresenta il suo mondo di allora.

AGONIA

Morire come le allodole assetate
sul miraggio

O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha piú voglia

Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato

Il messaggio è chiaro: meglio una morte dovuta all'azione che una
vita passata a lamentarsi... Non importa che l'azione sia antieroica,
si può anche morire di sete inseguendo un miraggio, o accorciare la
propria vita con gesti che consumano («passato il mare»). Ungaretti
sembra attratto dall'abisso, così come lo furono prima di lui i
poeti maledetti, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Vedeva una fine tragica
nel suo destino, o forse la cercava?
In quegli anni l'Italia è, e si sente, incompleta. Ci sono italiani
nelle terre iiredente, ancora sotto il dominio dell'Impero
Austro-Ungarico. Bisogna combattere l'ultima delle guerre
d'Indipendenza, così sostengono gli interventisti, che alla fine
prevalgono sui neutralisti. Ungaretti trova la causa che cercava e che
lo allontana dall'abisso: la Patria. È il 1915. Si arruola. È un
soldato semplice, e finisce spesso in trincea. Il suo reggimento viene
ricostituito centinaia di volte, perché ogni assalto lascia sul
terreno un gran numero di morti; dopo ogni assalto bisogna rifarlo da
capo! È uno sterminio costante e privo di senso.
Il soldato Ungaretti sente l'urgenza di scrivere, ma non vuole tenere
un diario. Allora scrive su ciò che ha sottomano: pezzi di cartolina
già pasticciati, la carta che avvolge le munizioni. Mette data e luogo
e, sotto, una poesia. Conserva tutto nel tascapane. Le parole nascono
alla luce incerta dei riflettori puntati contro la trincea nemica; a
lume di candela in una delle tante caverne del Carso, scrive.
Dirà poi, riguardo le sue prime poesie: "La guerra improvvisamente
mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta perché il
tempo poteva mancare, e nel modo più tragico... in fretta dire quello
che sentivo e quindi se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche
parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole
che avessero avuto un'intensità straordinaria di significato" [3].

Soldati, e altri fratelli

La Grande Guerra è diversa da tutte le precedenti. La seconda
Rivoluzione Industriale ha portato armi "migliori": fucili a
ripetizione, mitragliatrici, gas asfissianti, carri armati e persino
sottomarini. L'esercito italiano è impreparato a questa guerra,
semplicemente non la sa fare; gli assalti all'arma bianca, se ci
sono, si risolvono in una carneficina; le battaglie non spostano il
fronte di molto, si muore come mosche per prendere una collina o cento
metri di terra lungo i fiumi; e si torna indietro il giorno dopo. È
una guerra logorante, priva di trionfi, interminabile. Questa
lunghissima alba ha effetti profondi sui soldati al fronte. Per alcuni
è un vero e proprio danno mentale: sono frequenti la depressione, gli
attacchi di panico, il rifiuto della realtà; c'è chi si taglia le
dita, una mano, una gamba, o si acceca un occhio, pur di scamparla, pur
di tornare a casa -- meglio tornare vivi senza un pezzo che interi in
una bara.
Il poeta Ungaretti cambia pelle. La tragedia quotidiana fa sparire la
retorica della guerra come i sogni al risveglio. Altro che "Cinque
Maggio" di Alessandro Manzoni, la glorificazione del grande
condottiero Napoleone e delle sue battaglie, altro che eroi omerici,
qui non c'è traccia di Achille o Ettore, non suonano le fanfare
d'orgoglio, la morte non è mai gloriosa, e nemmeno c'è il Nemico,
non vi è traccia di odio. Ungaretti è un uomo solo in mezzo ad altri
uomini soli. Sa di essere fragile, ciascun soldato lo sa. Ma ciascun
soldato sente qualcosa di nuovo in sé: è l'amore per la vita, per
chi si riconosce uguale nel pericolo, per chi è disarmato nonostante
tutte le armi. "Fratelli" è la parola che spunta sulle labbra, il
nome di tutti quelli che soffrono con te. E la poesia "Fratelli"
inizia con una domanda a loro rivolta.

FRATELLI
Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

In questa poesia e in molte altre Ungaretti usa poche parole, e dà
valore a tutto ciò che circonda l'inchiostro: i vuoti, le pause tra
le parole, gli spazi bianchi che rendono un verso come un'isola.
Vedremo in seguito che questa necessità dovuta alla guerra diventerà
poi una necessità di vita (come testimoniano le varianti delle poesie
ungarettiane).
"I fiumi", datata 16 agosto 1916, è una poesia lunga rispetto alle
altre, arriva a ben 69 versi. Descrive un momento di tregua e di
riposo, un bagno nel fiume Isonzo. Il fiume è un simbolo universale di
vita, nascita, purificazione, e lo è anche per Ungaretti («Questo è
l'Isonzo / e qui meglio / mi sono riconosciuto / una docile fibra /
dell'universo»). Il fiume gli ricorda altri fiumi, e rappresenta
così le sue radici molteplici: ragazzo cresciuto nel deserto (il
Nilo); italiano che riscopre le proprie origini (il Serchio); parigino
mondano (la Senna); e infine soldato in guerra. Ogni passaggio
importante nella vita del poeta è segnato da un fiume.
Ma è una tregua -- ecco il motivo di questo abbondare di parole. Le
immagini di desolazione riprendono il sopravvento, la più vivida è
espressa in "San Martino del Carso".

SAN MARTINO DEL CARSO
Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato

Questo continuo processo di rarefazione semantica tocca il suo apice
nella poesia "Soldati".

SOLDATI
Bosco di Courton luglio 1918

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

Il sottotitolo dice "Bosco di Courton luglio 1918". È quindi
estate. La poesia, con quella precisazione che a volte ci si dimentica,
diventa più geograficamente e poeticamente nitida, ma meno haiku [4];
c'è un minore spazio per le interpretazioni. Ma poi, c'è bisogno
di interpretare una poesia così limpida? La parafrasi del testo non è
forse una contraddizione in termini in questi casi? Provo comunque a
dare alcuni spunti...
Ad esempio, noto che quel "Si sta", in apparenza così impersonale,
viene preferito al collettivo "Stiamo": chi parla non è massa né
moltitudine, è una voce di poeta che percepisce tutte le altre voci. E
dice, questo poeta, che anche se la guerra fa cadere gli uomini come
foglie non è una malattia che intacca la pianta o, se è una malattia,
non è in grado di danneggiare la pianta: sarà ancora primavera e
torneranno le foglie. (Ma questo pensiero è forse una forzatura del
testo; chi mi assicura che il poeta avesse in mente la primavera quando
ha coniato la similitudine foglie-soldati?)
La poesia ha una struttura metrica forte, che viene percepita anche da
un ascoltatore distratto. In effetti c'è, ben nascosto, un
alessandrino [5]. La traduzione in francese di "Soldati" fatta
dallo stesso Ungaretti è un endecasillabo: «Nous sommes / tels
qu'en automne / sur l'arbre / la feuille». Il lettore è
autorizzato o no a leggere la poesia ignorando la divisione in
versicoli? Credo di poter rispondere di no: una tale operazione, oltre
a fare violenza al testo, spazza via l'intreccio tra parola e
significato che Ungaretti ha imparato a creare con così tanta pena.

MATTINA
Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917

M'illumino
D'immenso

Questa è una poesia fulminante. È fatta solo di spirito, si potrebbe
dire, e infatti è difficilissimo visualizzare una immagine, un corpo,
un qualunque oggetto che sia di questo mondo. C'è suono, puro suono,
nemmeno colore (quali colori ha l'immenso?). C'è un titolo che dà
la coordinata di tempo alla poesia. C'è la consueta indicazione
diaristica di data e luogo, che permette di perfezionare la ricerca
sulla mappa. Ma la mappa è luce, ha forma di onda e di corpuscolo, è
inafferrabile, è sinestetica, passa da un senso all'altro senza mai
fermarsi.
La perfezione dei versi è, tuttavia, indagabile in qualche modo.
C'è un settenario nascosto. Il legame tra suono e sensazione è dato
anche dalla relazione tra le lettere: il primo verso di 9 lettere ha in
comune 5 lettere con il secondo di 8; la prima vocale del primo verso
coincide con la prima vocale del secondo verso; infine l'ultima
vocale e ultima lettera del primo verso coincide con l'ultima lettera
dell'ultimo verso. L'armonia della costruzione poetica coincide con
l'armonia del creato visto alla luce del mattino.

Dalle "Ultime" alle "Prime"

Nel 1918 la guerra ha fine. L'Italia la vince, senza farci una gran
figura, e conquista le terre irredente (o meglio, le grandi potenze
vincitrici permettono al Regno d'Italia di metterci le mani) nonché
il diritto ad avere un impero coloniale (o meglio, le grandi potenze
chiudono gli occhi su ciò che il Re combina in Africa). Il soldato
Ungaretti torna a casa. Ha già pubblicato "Il porto sepolto" nel
1916, mentre era in trincea; estende la raccolta nel 1919, chiamandola
"Allegria di naufragi"; la stesura definitiva sarà del 1931 e si
chiamerà "L'Allegria".
Quest'ultima raccolta sistema le poesie in ordine cronologico, ma dà
ad alcune un nome in apparenza contraddittorio: le più vecchie si
chiamano "Ultime", le più recenti "Prime". Il motivo si
chiarisce leggendole: dalle "Ultime" alle "Prime" si attenua la
sensazione del male di vivere (lo stesso che Montale saprà descrivere
così bene) e scompare la retorica della patria (ben visibile invece in
"Popolo"); le "Ultime" seguono un percorso poetico ormai
abbandonato, e sanno di morte ("Tappeto", "Chiaroscuro"); le
"Prime" sono foglie appena nate, per usare le stesse parole di
"Fratelli", sono le poesie del naufrago ancora vivo dopo la guerra.
Il simbolo del porto sepolto allude al potere della poesia di svelare
ciò che è sotto l'apparenza, ma che comunque resta in fondo al mare
(cioè in fondo all'animo). L'ossimoro "Allegria di naufragi"
allude alla guerra, un naufragio dal quale i sopravvissuti trovano
nuova forza, voglia di vivere, proprio perché si sono salvati dalla
distruzione. È un titolo che richiama alla memoria il famoso verso de
"L'Infinito" di Giacomo Leopardi, «e il naufragar m'è dolce
in questo mare»; ed è possibile immaginare che mentre il poeta
pensava al titolo, questo verso affiorasse dalla sua memoria, come
suggestione, come forma velata... o come un porto sepolto sotto il
mare. Il titolo definitivo, "L'Allegria", è allora un nodo
sciolto: il poeta canta l'allegria di vivere, fuori dal contesto
storico, fuori anche da sé stesso. La poesia attraversa un percorso di
vita per cercare un approdo di vita.
E appare, dalle "Prime", la fine del lungo percorso. Ungaretti
avrà una piena conversione al cattolicesimo, nel 1928. È Dio ciò che
il poeta cerca ora ("Dannazione": «Chiuso fra cose mortali //
(Anche il cielo stellato finirà) // Perché bramo Dio?»). L'ultima
poesia de "L'Allegria" si chiama, non a caso, "Preghiera".

L'instancabile lavorìo delle onde

Una costante nell'opera di Giuseppe Ungaretti è la "covata": le
poesie sono uova da accudire, contengono l'embrione e l'essere, ma
non sono mai definitive. Dell'uovo hanno la rotondità, ma la forma
è sempre perfezionabile. Ungaretti sfronda, taglia, lima, rivede,
corregge, lungo un arco di tempo che raggiunge e supera i vent'anni.
Il testo è una ricerca continua di forma. Una ricerca sacra.
Questo è anche un lavoro sul colore, ed è un lavoro familiare alla
maggior parte degli scrittori e dei poeti. La prima stesura è spesso
la più facile, ma la stesura definitiva richiede un lavoro estenuante.
Ungaretti usa lo scalpello alla ricerca di una migliore curva, e lo fa
per anni, perfeziona, ma non nasconde nulla. Fa ciò che il mare fa
allo scoglio. Il sudore di una parola tolta, fosse anche la più
minuscola, è lì come una sindone per chi voglia studiarlo.
Sottrazioni: succo di significato che porta alla moltiplicazione di
significato. Lo vediamo all'opera in certi passaggi, soprattutto,
come in quello dall'originario «Ci spossiamo in una vendemmia di
sole» a «Ci vendemmia il sole» ("Fase d'Oriente"). O in «Sono
come / la timida barca / per l'oceano libidinoso», che diventa
«Sono come / la misera barca / e come l'oceano libidinoso»
("Attrito").
Il caso di "Fratelli" può apparire esemplare, ma solo perché
vediamo l'intero processo (dalla prima stesura del 1916 all'ultima
del 1943) accelerato quasi alla velocità della luce. "Fratelli" si
chiamava "Soldato" ed era così:

SOLDATO

Di che reggimento siete
fratelli?

Fratello
tremante parola
nella notte
come una fogliolina
appena nata

Nell'aria spasimante

Fratelli
saluto
accorato
nell'aria spasimante
implorazione sussurrata
di soccorso
all'uomo presente alla sua fragilità

Uomo di pena, voce pura

Il soldato Ungaretti, congedato, può tornare a casa. Lo strazio è
ancora nel cuore, non se ne andrà facilmente. E gli anni che
seguiranno la guerra non saranno facili. Ma l'uomo di pena (così si
definisce in "Pellegrinaggio") ha intuito dove lo condurrà il suo
lungo percorso. In trincea ha scritto le poesie "Dannazione" e
"Risvegli" senza mettere il punto interrogativo là dove ce ne
sarebbe stato bisogno, sulle domande "Perché bramo Dio" e "Ma
Dio cos'è". Quelle che nell'inferno carsico erano domande
impossibili per lui, talmente indecifrabili e lontane da non essere
nemmeno domande, ora sono vicine. Non può dare una risposta in forma
di parole, ma sente che può provarci. Le stesure successive hanno il
punto interrogativo.
E l'ultima delle poesie de "L'Allegria", che riporto di
seguito, ha il colore brillante di qualcosa che, sì, può essere
Amore.

PREGHIERA

Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera

Quando il mio peso mi sarà leggero

Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido

Note

[1] Oppure cercate in rete gli mp3 di Ungaretti (in persona!) che
recita le proprie poesie; ogni tanto qualche filmato passa anche sui
canali satellitari educativi della RAI.
[2] Lo stesso poeta ne è cosciente. In "Italia" dice: «Sono un
frutto / d'innumerevoli contrasti d'innesti / maturato in una
serra».
[3] G. Ungaretti, "Saggi e interventi", a cura di M. Diacono e L.
Rebay, Milano, Mondadori, 1974.
[4] Una poesia de "L'Allegria", "Notte di Maggio", è
composta da 3 versi di 7, 5, 7 sillabe ognuno («Il cielo pone in capo
/ ai minareti / ghirlande di lumini»). Si tratta di un haiku o di una
casualità? Non sono riuscito a venirne a capo.
[5] Alessandrino: Verso di origine francese, composto di 2 emistichi
(due mezzi versi), ognuno accentato sulla sesta sillaba. È considerato
equivalente all'endecasillabo italiano, sia per la somiglianza del
metro sia per il prestigio che possiede.

Prima stesura 09-06-2006
Ultima revisione 09-06-2006
peli
2006-06-13 23:49:55 UTC
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Post by Grenar
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Ungaretti e l'Allegria
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Lo scenario
La Grande Guerra ha inizio per gli Imperi coloniali il 10 luglio 1914.
L'Italia, giovane regno con un esercito poco attrezzato e male
addestrato, ma pieno di retorica e sogni di gloria, ci entra il 24
maggio 1915. Il giovane soldato Giuseppe Ungaretti è partito come
volontario. Credeva nella necessità della guerra, sperava che fosse
breve e portasse onore alla Patria. Ma non è così. La guerra, per chi
non la fa sui giornali o nei salotti, per chi non è un ricco
privilegiato, un industriale, un ufficiale di alto rango, è solo una
serie infinita di orrori. Come ogni altro essere umano, Ungaretti si
sente fragile, ha paura di morire, è sconfortato. Come ogni altro
soldato, deve combattere in prima linea anche se sa che può morire.
Tanti suoi compagni sono già morti: dissanguandosi lentamente, o in un
attimo, colpiti alla testa o al cuore, una morte che non dà il tempo
nemmeno di chiudere gli occhi.
Il 22 dicembre 1915 Ungaretti riposa, dopo il turno di trincea. Fa
tacere le mitragliatrici instancabili, fa silenzio dentro sé e prova a
scrivere. Forse, poco prima di Natale, sulla Cima Quattro del Carso,
già nevica; ma dalla penna esce una poesia che ha per titolo
Ora specchio i punti di mondo
che avevo compagni
e fiuto l'orientamento
È una riflessione sul cambiamento che lo ha travolto. Il deserto è
tutto interiore, i punti di riferimento sono scomparsi, c'è solo
sabbia attorno a lui. Ma bisogna muoversi, cercare, fiutare, agire.
Bisogna capire quale direzione prendere, pur sapendo che si è «Sino
alla morte in balia del viaggio». Il giorno seguente scrive
VEGLIA
Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Tra le due poesie c'è un abisso. Lo stile è quello che Ungaretti ha
sviluppato già prima della guerra: il verso spezzato, ridotto persino
in sillabe isolate o in parole di servizio (di, una, come, e); la
punteggiatura soppressa, sull'esempio dei futuristi e di Apollinaire;
l'uso dell'analogia cara ai simbolisti, cioè l'accostamento di
immagini tra loro lontane, che fondendosi rivelano una nuova immagine,
non descrivibile con parole comuni; e infine l'iniziale maiuscola,
che mantiene il legame con il passato e la tradizione.
La rivelazione del cambiamento è tutta nel significato. Il canto
soffre come l'uomo da cui si genera. La serie di participi (buttato,
massacrato, digrignata, penetrata) schiaccia ogni gesto d'azione, il
soldato subisce ciò che vede e basta, la notte di guerra è la più
lunga delle notti. È una poesia dalle sonorità aspre (provate a
leggerla a voce alta [1]), è cruda e tenera al tempo stesso.
E allora, per capire quanto sia cambiato quell'uomo che canta e
piange, dobbiamo fare un passo indietro e scoprire chi fosse prima, e
spiare le mosse che lo hanno portato sin qui.
L'ultimo inizio
Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, ai confini
col deserto. Rimane orfano del padre, operaio al lavoro nel canale di
Suez, a poco più di un anno. Dagli otto ai sedici anni va a scuola dai
Salesiani. Questa educazione forse troppo severa e religiosa lo spinge
nella direzione opposta: a vent'anni Ungaretti si dichiara ateo e si
lega agli ambienti anarchici. È l'inizio di un lungo percorso. A
ventiquattro anni è a Parigi, la capitale mondiale della cultura.
Studia per due anni all'università della Sorbona, ma non si laurea;
ha familiarità con le avanguardie, con il poeta Apollinaire
soprattutto; legge il "Manifesto del Futurismo" (1909) di Filippo
Tommaso Marinetti, in cui il fondatore del movimento artistico dichiara
apertamente che la poesia deve glorificare la guerra, perché «sola
igiene del mondo». Si avvicina ai poeti simbolisti, Mallarmé su
tutti. Assorbe retorica anche da Gabriele D'Annunzio, già allora
vate e cantore dell'Italia in armi ("Canzoni delle gesta
d'oltremare", 1911-12).
La sua voce poetica cresce in questo particolare humus culturale,
composto di rotture con il passato e nostalgie, nazionalismi e augurio
di rovina delle nazioni, attesa e azione, esaltazione dell'atto di
forza e ripiegamento in sé; e quindi non ha ancora una forma stabile,
Ungaretti è senza denaro, quasi un bohémien; è infelice, come tutta
la sua generazione; cerca una ragione di vita, un'identità, una
causa; perde un amico d'infanzia, Moammed Sceab, che muore suicida;
incontra una donna, Jeanne Dupoix, che poi sposerà e amerà
moltissimo. Le sue prime poesie appaiono sulla rivista "La Voce",
diretta da Prezzolini, e sono del 1914; scrive anche per la rivista
"Lacerba" di Papini. Una poesia in particolare, "Agonia",
rappresenta il suo mondo di allora.
AGONIA
Morire come le allodole assetate
sul miraggio
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha piú voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato
Il messaggio è chiaro: meglio una morte dovuta all'azione che una
vita passata a lamentarsi... Non importa che l'azione sia antieroica,
si può anche morire di sete inseguendo un miraggio, o accorciare la
propria vita con gesti che consumano («passato il mare»). Ungaretti
sembra attratto dall'abisso, così come lo furono prima di lui i
poeti maledetti, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Vedeva una fine tragica
nel suo destino, o forse la cercava?
In quegli anni l'Italia è, e si sente, incompleta. Ci sono italiani
nelle terre iiredente, ancora sotto il dominio dell'Impero
Austro-Ungarico. Bisogna combattere l'ultima delle guerre
d'Indipendenza, così sostengono gli interventisti, che alla fine
prevalgono sui neutralisti. Ungaretti trova la causa che cercava e che
lo allontana dall'abisso: la Patria. È il 1915. Si arruola. È un
soldato semplice, e finisce spesso in trincea. Il suo reggimento viene
ricostituito centinaia di volte, perché ogni assalto lascia sul
terreno un gran numero di morti; dopo ogni assalto bisogna rifarlo da
capo! È uno sterminio costante e privo di senso.
Il soldato Ungaretti sente l'urgenza di scrivere, ma non vuole tenere
un diario. Allora scrive su ciò che ha sottomano: pezzi di cartolina
già pasticciati, la carta che avvolge le munizioni. Mette data e luogo
e, sotto, una poesia. Conserva tutto nel tascapane. Le parole nascono
alla luce incerta dei riflettori puntati contro la trincea nemica; a
lume di candela in una delle tante caverne del Carso, scrive.
Dirà poi, riguardo le sue prime poesie: "La guerra improvvisamente
mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta perché il
tempo poteva mancare, e nel modo più tragico... in fretta dire quello
che sentivo e quindi se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche
parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole
che avessero avuto un'intensità straordinaria di significato" [3].
Soldati, e altri fratelli
La Grande Guerra è diversa da tutte le precedenti. La seconda
Rivoluzione Industriale ha portato armi "migliori": fucili a
ripetizione, mitragliatrici, gas asfissianti, carri armati e persino
sottomarini. L'esercito italiano è impreparato a questa guerra,
semplicemente non la sa fare; gli assalti all'arma bianca, se ci
sono, si risolvono in una carneficina; le battaglie non spostano il
fronte di molto, si muore come mosche per prendere una collina o cento
metri di terra lungo i fiumi; e si torna indietro il giorno dopo. È
una guerra logorante, priva di trionfi, interminabile. Questa
lunghissima alba ha effetti profondi sui soldati al fronte. Per alcuni
è un vero e proprio danno mentale: sono frequenti la depressione, gli
attacchi di panico, il rifiuto della realtà; c'è chi si taglia le
dita, una mano, una gamba, o si acceca un occhio, pur di scamparla, pur
di tornare a casa -- meglio tornare vivi senza un pezzo che interi in
una bara.
Il poeta Ungaretti cambia pelle. La tragedia quotidiana fa sparire la
retorica della guerra come i sogni al risveglio. Altro che "Cinque
Maggio" di Alessandro Manzoni, la glorificazione del grande
condottiero Napoleone e delle sue battaglie, altro che eroi omerici,
qui non c'è traccia di Achille o Ettore, non suonano le fanfare
d'orgoglio, la morte non è mai gloriosa, e nemmeno c'è il Nemico,
non vi è traccia di odio. Ungaretti è un uomo solo in mezzo ad altri
uomini soli. Sa di essere fragile, ciascun soldato lo sa. Ma ciascun
soldato sente qualcosa di nuovo in sé: è l'amore per la vita, per
chi si riconosce uguale nel pericolo, per chi è disarmato nonostante
tutte le armi. "Fratelli" è la parola che spunta sulle labbra, il
nome di tutti quelli che soffrono con te. E la poesia "Fratelli"
inizia con una domanda a loro rivolta.
FRATELLI
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
In questa poesia e in molte altre Ungaretti usa poche parole, e dà
valore a tutto ciò che circonda l'inchiostro: i vuoti, le pause tra
le parole, gli spazi bianchi che rendono un verso come un'isola.
Vedremo in seguito che questa necessità dovuta alla guerra diventerà
poi una necessità di vita (come testimoniano le varianti delle poesie
ungarettiane).
"I fiumi", datata 16 agosto 1916, è una poesia lunga rispetto alle
altre, arriva a ben 69 versi. Descrive un momento di tregua e di
riposo, un bagno nel fiume Isonzo. Il fiume è un simbolo universale di
vita, nascita, purificazione, e lo è anche per Ungaretti («Questo è
l'Isonzo / e qui meglio / mi sono riconosciuto / una docile fibra /
dell'universo»). Il fiume gli ricorda altri fiumi, e rappresenta
così le sue radici molteplici: ragazzo cresciuto nel deserto (il
Nilo); italiano che riscopre le proprie origini (il Serchio); parigino
mondano (la Senna); e infine soldato in guerra. Ogni passaggio
importante nella vita del poeta è segnato da un fiume.
Ma è una tregua -- ecco il motivo di questo abbondare di parole. Le
immagini di desolazione riprendono il sopravvento, la più vivida è
espressa in "San Martino del Carso".
SAN MARTINO DEL CARSO
Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
Questo continuo processo di rarefazione semantica tocca il suo apice
nella poesia "Soldati".
SOLDATI
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie
Il sottotitolo dice "Bosco di Courton luglio 1918". È quindi
estate. La poesia, con quella precisazione che a volte ci si dimentica,
diventa più geograficamente e poeticamente nitida, ma meno haiku [4];
c'è un minore spazio per le interpretazioni. Ma poi, c'è bisogno
di interpretare una poesia così limpida? La parafrasi del testo non è
forse una contraddizione in termini in questi casi? Provo comunque a
dare alcuni spunti...
Ad esempio, noto che quel "Si sta", in apparenza così impersonale,
viene preferito al collettivo "Stiamo": chi parla non è massa né
moltitudine, è una voce di poeta che percepisce tutte le altre voci. E
dice, questo poeta, che anche se la guerra fa cadere gli uomini come
foglie non è una malattia che intacca la pianta o, se è una malattia,
non è in grado di danneggiare la pianta: sarà ancora primavera e
torneranno le foglie. (Ma questo pensiero è forse una forzatura del
testo; chi mi assicura che il poeta avesse in mente la primavera quando
ha coniato la similitudine foglie-soldati?)
La poesia ha una struttura metrica forte, che viene percepita anche da
un ascoltatore distratto. In effetti c'è, ben nascosto, un
alessandrino [5]. La traduzione in francese di "Soldati" fatta
dallo stesso Ungaretti è un endecasillabo: «Nous sommes / tels
qu'en automne / sur l'arbre / la feuille». Il lettore è
autorizzato o no a leggere la poesia ignorando la divisione in
versicoli? Credo di poter rispondere di no: una tale operazione, oltre
a fare violenza al testo, spazza via l'intreccio tra parola e
significato che Ungaretti ha imparato a creare con così tanta pena.
MATTINA
Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917
M'illumino
D'immenso
Questa è una poesia fulminante. È fatta solo di spirito, si potrebbe
dire, e infatti è difficilissimo visualizzare una immagine, un corpo,
un qualunque oggetto che sia di questo mondo. C'è suono, puro suono,
nemmeno colore (quali colori ha l'immenso?). C'è un titolo che dà
la coordinata di tempo alla poesia. C'è la consueta indicazione
diaristica di data e luogo, che permette di perfezionare la ricerca
sulla mappa. Ma la mappa è luce, ha forma di onda e di corpuscolo, è
inafferrabile, è sinestetica, passa da un senso all'altro senza mai
fermarsi.
La perfezione dei versi è, tuttavia, indagabile in qualche modo.
C'è un settenario nascosto. Il legame tra suono e sensazione è dato
anche dalla relazione tra le lettere: il primo verso di 9 lettere ha in
comune 5 lettere con il secondo di 8; la prima vocale del primo verso
coincide con la prima vocale del secondo verso; infine l'ultima
vocale e ultima lettera del primo verso coincide con l'ultima lettera
dell'ultimo verso. L'armonia della costruzione poetica coincide con
l'armonia del creato visto alla luce del mattino.
Dalle "Ultime" alle "Prime"
Nel 1918 la guerra ha fine. L'Italia la vince, senza farci una gran
figura, e conquista le terre irredente (o meglio, le grandi potenze
vincitrici permettono al Regno d'Italia di metterci le mani) nonché
il diritto ad avere un impero coloniale (o meglio, le grandi potenze
chiudono gli occhi su ciò che il Re combina in Africa). Il soldato
Ungaretti torna a casa. Ha già pubblicato "Il porto sepolto" nel
1916, mentre era in trincea; estende la raccolta nel 1919, chiamandola
"Allegria di naufragi"; la stesura definitiva sarà del 1931 e si
chiamerà "L'Allegria".
Quest'ultima raccolta sistema le poesie in ordine cronologico, ma dà
ad alcune un nome in apparenza contraddittorio: le più vecchie si
chiamano "Ultime", le più recenti "Prime". Il motivo si
chiarisce leggendole: dalle "Ultime" alle "Prime" si attenua la
sensazione del male di vivere (lo stesso che Montale saprà descrivere
così bene) e scompare la retorica della patria (ben visibile invece in
"Popolo"); le "Ultime" seguono un percorso poetico ormai
abbandonato, e sanno di morte ("Tappeto", "Chiaroscuro"); le
"Prime" sono foglie appena nate, per usare le stesse parole di
"Fratelli", sono le poesie del naufrago ancora vivo dopo la guerra.
Il simbolo del porto sepolto allude al potere della poesia di svelare
ciò che è sotto l'apparenza, ma che comunque resta in fondo al mare
(cioè in fondo all'animo). L'ossimoro "Allegria di naufragi"
allude alla guerra, un naufragio dal quale i sopravvissuti trovano
nuova forza, voglia di vivere, proprio perché si sono salvati dalla
distruzione. È un titolo che richiama alla memoria il famoso verso de
"L'Infinito" di Giacomo Leopardi, «e il naufragar m'è dolce
in questo mare»; ed è possibile immaginare che mentre il poeta
pensava al titolo, questo verso affiorasse dalla sua memoria, come
suggestione, come forma velata... o come un porto sepolto sotto il
mare. Il titolo definitivo, "L'Allegria", è allora un nodo
sciolto: il poeta canta l'allegria di vivere, fuori dal contesto
storico, fuori anche da sé stesso. La poesia attraversa un percorso di
vita per cercare un approdo di vita.
E appare, dalle "Prime", la fine del lungo percorso. Ungaretti
avrà una piena conversione al cattolicesimo, nel 1928. È Dio ciò che
il poeta cerca ora ("Dannazione": «Chiuso fra cose mortali //
(Anche il cielo stellato finirà) // Perché bramo Dio?»). L'ultima
poesia de "L'Allegria" si chiama, non a caso, "Preghiera".
L'instancabile lavorìo delle onde
Una costante nell'opera di Giuseppe Ungaretti è la "covata": le
poesie sono uova da accudire, contengono l'embrione e l'essere, ma
non sono mai definitive. Dell'uovo hanno la rotondità, ma la forma
è sempre perfezionabile. Ungaretti sfronda, taglia, lima, rivede,
corregge, lungo un arco di tempo che raggiunge e supera i vent'anni.
Il testo è una ricerca continua di forma. Una ricerca sacra.
Questo è anche un lavoro sul colore, ed è un lavoro familiare alla
maggior parte degli scrittori e dei poeti. La prima stesura è spesso
la più facile, ma la stesura definitiva richiede un lavoro estenuante.
Ungaretti usa lo scalpello alla ricerca di una migliore curva, e lo fa
per anni, perfeziona, ma non nasconde nulla. Fa ciò che il mare fa
allo scoglio. Il sudore di una parola tolta, fosse anche la più
minuscola, è lì come una sindone per chi voglia studiarlo.
Sottrazioni: succo di significato che porta alla moltiplicazione di
significato. Lo vediamo all'opera in certi passaggi, soprattutto,
come in quello dall'originario «Ci spossiamo in una vendemmia di
sole» a «Ci vendemmia il sole» ("Fase d'Oriente"). O in «Sono
come / la timida barca / per l'oceano libidinoso», che diventa
«Sono come / la misera barca / e come l'oceano libidinoso»
("Attrito").
Il caso di "Fratelli" può apparire esemplare, ma solo perché
vediamo l'intero processo (dalla prima stesura del 1916 all'ultima
del 1943) accelerato quasi alla velocità della luce. "Fratelli" si
SOLDATO
Di che reggimento siete
fratelli?
Fratello
tremante parola
nella notte
come una fogliolina
appena nata
Nell'aria spasimante
Fratelli
saluto
accorato
nell'aria spasimante
implorazione sussurrata
di soccorso
all'uomo presente alla sua fragilità
Uomo di pena, voce pura
Il soldato Ungaretti, congedato, può tornare a casa. Lo strazio è
ancora nel cuore, non se ne andrà facilmente. E gli anni che
seguiranno la guerra non saranno facili. Ma l'uomo di pena (così si
definisce in "Pellegrinaggio") ha intuito dove lo condurrà il suo
lungo percorso. In trincea ha scritto le poesie "Dannazione" e
"Risvegli" senza mettere il punto interrogativo là dove ce ne
sarebbe stato bisogno, sulle domande "Perché bramo Dio" e "Ma
Dio cos'è". Quelle che nell'inferno carsico erano domande
impossibili per lui, talmente indecifrabili e lontane da non essere
nemmeno domande, ora sono vicine. Non può dare una risposta in forma
di parole, ma sente che può provarci. Le stesure successive hanno il
punto interrogativo.
E l'ultima delle poesie de "L'Allegria", che riporto di
seguito, ha il colore brillante di qualcosa che, sì, può essere
Amore.
PREGHIERA
Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera
Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido
Note
[1] Oppure cercate in rete gli mp3 di Ungaretti (in persona!) che
recita le proprie poesie; ogni tanto qualche filmato passa anche sui
canali satellitari educativi della RAI.
[2] Lo stesso poeta ne è cosciente. In "Italia" dice: «Sono un
frutto / d'innumerevoli contrasti d'innesti / maturato in una
serra».
[3] G. Ungaretti, "Saggi e interventi", a cura di M. Diacono e L.
Rebay, Milano, Mondadori, 1974.
[4] Una poesia de "L'Allegria", "Notte di Maggio", è
composta da 3 versi di 7, 5, 7 sillabe ognuno («Il cielo pone in capo
/ ai minareti / ghirlande di lumini»). Si tratta di un haiku o di una
casualità? Non sono riuscito a venirne a capo.
[5] Alessandrino: Verso di origine francese, composto di 2 emistichi
(due mezzi versi), ognuno accentato sulla sesta sillaba. È considerato
equivalente all'endecasillabo italiano, sia per la somiglianza del
metro sia per il prestigio che possiede.
Prima stesura 09-06-2006
Ultima revisione 09-06-2006
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peli
2006-06-13 23:50:56 UTC
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Post by Grenar
Area Tematica Colori
Ungaretti e l'Allegria
La voce fragile e forte di un poeta al fronte
Scritto da Grenar (www.grenar.info)
Questo materiale è rilasciato sotto licenza Creative Commons
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.0/it/
Lo scenario
La Grande Guerra ha inizio per gli Imperi coloniali il 10 luglio 1914.
L'Italia, giovane regno con un esercito poco attrezzato e male
addestrato, ma pieno di retorica e sogni di gloria, ci entra il 24
maggio 1915. Il giovane soldato Giuseppe Ungaretti è partito come
volontario. Credeva nella necessità della guerra, sperava che fosse
breve e portasse onore alla Patria. Ma non è così. La guerra, per chi
non la fa sui giornali o nei salotti, per chi non è un ricco
privilegiato, un industriale, un ufficiale di alto rango, è solo una
serie infinita di orrori. Come ogni altro essere umano, Ungaretti si
sente fragile, ha paura di morire, è sconfortato. Come ogni altro
soldato, deve combattere in prima linea anche se sa che può morire.
Tanti suoi compagni sono già morti: dissanguandosi lentamente, o in un
attimo, colpiti alla testa o al cuore, una morte che non dà il tempo
nemmeno di chiudere gli occhi.
Il 22 dicembre 1915 Ungaretti riposa, dopo il turno di trincea. Fa
tacere le mitragliatrici instancabili, fa silenzio dentro sé e prova a
scrivere. Forse, poco prima di Natale, sulla Cima Quattro del Carso,
già nevica; ma dalla penna esce una poesia che ha per titolo
Ora specchio i punti di mondo
che avevo compagni
e fiuto l'orientamento
È una riflessione sul cambiamento che lo ha travolto. Il deserto è
tutto interiore, i punti di riferimento sono scomparsi, c'è solo
sabbia attorno a lui. Ma bisogna muoversi, cercare, fiutare, agire.
Bisogna capire quale direzione prendere, pur sapendo che si è «Sino
alla morte in balia del viaggio». Il giorno seguente scrive
VEGLIA
Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Tra le due poesie c'è un abisso. Lo stile è quello che Ungaretti ha
sviluppato già prima della guerra: il verso spezzato, ridotto persino
in sillabe isolate o in parole di servizio (di, una, come, e); la
punteggiatura soppressa, sull'esempio dei futuristi e di Apollinaire;
l'uso dell'analogia cara ai simbolisti, cioè l'accostamento di
immagini tra loro lontane, che fondendosi rivelano una nuova immagine,
non descrivibile con parole comuni; e infine l'iniziale maiuscola,
che mantiene il legame con il passato e la tradizione.
La rivelazione del cambiamento è tutta nel significato. Il canto
soffre come l'uomo da cui si genera. La serie di participi (buttato,
massacrato, digrignata, penetrata) schiaccia ogni gesto d'azione, il
soldato subisce ciò che vede e basta, la notte di guerra è la più
lunga delle notti. È una poesia dalle sonorità aspre (provate a
leggerla a voce alta [1]), è cruda e tenera al tempo stesso.
E allora, per capire quanto sia cambiato quell'uomo che canta e
piange, dobbiamo fare un passo indietro e scoprire chi fosse prima, e
spiare le mosse che lo hanno portato sin qui.
L'ultimo inizio
Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, ai confini
col deserto. Rimane orfano del padre, operaio al lavoro nel canale di
Suez, a poco più di un anno. Dagli otto ai sedici anni va a scuola dai
Salesiani. Questa educazione forse troppo severa e religiosa lo spinge
nella direzione opposta: a vent'anni Ungaretti si dichiara ateo e si
lega agli ambienti anarchici. È l'inizio di un lungo percorso. A
ventiquattro anni è a Parigi, la capitale mondiale della cultura.
Studia per due anni all'università della Sorbona, ma non si laurea;
ha familiarità con le avanguardie, con il poeta Apollinaire
soprattutto; legge il "Manifesto del Futurismo" (1909) di Filippo
Tommaso Marinetti, in cui il fondatore del movimento artistico dichiara
apertamente che la poesia deve glorificare la guerra, perché «sola
igiene del mondo». Si avvicina ai poeti simbolisti, Mallarmé su
tutti. Assorbe retorica anche da Gabriele D'Annunzio, già allora
vate e cantore dell'Italia in armi ("Canzoni delle gesta
d'oltremare", 1911-12).
La sua voce poetica cresce in questo particolare humus culturale,
composto di rotture con il passato e nostalgie, nazionalismi e augurio
di rovina delle nazioni, attesa e azione, esaltazione dell'atto di
forza e ripiegamento in sé; e quindi non ha ancora una forma stabile,
Ungaretti è senza denaro, quasi un bohémien; è infelice, come tutta
la sua generazione; cerca una ragione di vita, un'identità, una
causa; perde un amico d'infanzia, Moammed Sceab, che muore suicida;
incontra una donna, Jeanne Dupoix, che poi sposerà e amerà
moltissimo. Le sue prime poesie appaiono sulla rivista "La Voce",
diretta da Prezzolini, e sono del 1914; scrive anche per la rivista
"Lacerba" di Papini. Una poesia in particolare, "Agonia",
rappresenta il suo mondo di allora.
AGONIA
Morire come le allodole assetate
sul miraggio
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha piú voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato
Il messaggio è chiaro: meglio una morte dovuta all'azione che una
vita passata a lamentarsi... Non importa che l'azione sia antieroica,
si può anche morire di sete inseguendo un miraggio, o accorciare la
propria vita con gesti che consumano («passato il mare»). Ungaretti
sembra attratto dall'abisso, così come lo furono prima di lui i
poeti maledetti, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Vedeva una fine tragica
nel suo destino, o forse la cercava?
In quegli anni l'Italia è, e si sente, incompleta. Ci sono italiani
nelle terre iiredente, ancora sotto il dominio dell'Impero
Austro-Ungarico. Bisogna combattere l'ultima delle guerre
d'Indipendenza, così sostengono gli interventisti, che alla fine
prevalgono sui neutralisti. Ungaretti trova la causa che cercava e che
lo allontana dall'abisso: la Patria. È il 1915. Si arruola. È un
soldato semplice, e finisce spesso in trincea. Il suo reggimento viene
ricostituito centinaia di volte, perché ogni assalto lascia sul
terreno un gran numero di morti; dopo ogni assalto bisogna rifarlo da
capo! È uno sterminio costante e privo di senso.
Il soldato Ungaretti sente l'urgenza di scrivere, ma non vuole tenere
un diario. Allora scrive su ciò che ha sottomano: pezzi di cartolina
già pasticciati, la carta che avvolge le munizioni. Mette data e luogo
e, sotto, una poesia. Conserva tutto nel tascapane. Le parole nascono
alla luce incerta dei riflettori puntati contro la trincea nemica; a
lume di candela in una delle tante caverne del Carso, scrive.
Dirà poi, riguardo le sue prime poesie: "La guerra improvvisamente
mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta perché il
tempo poteva mancare, e nel modo più tragico... in fretta dire quello
che sentivo e quindi se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche
parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole
che avessero avuto un'intensità straordinaria di significato" [3].
Soldati, e altri fratelli
La Grande Guerra è diversa da tutte le precedenti. La seconda
Rivoluzione Industriale ha portato armi "migliori": fucili a
ripetizione, mitragliatrici, gas asfissianti, carri armati e persino
sottomarini. L'esercito italiano è impreparato a questa guerra,
semplicemente non la sa fare; gli assalti all'arma bianca, se ci
sono, si risolvono in una carneficina; le battaglie non spostano il
fronte di molto, si muore come mosche per prendere una collina o cento
metri di terra lungo i fiumi; e si torna indietro il giorno dopo. È
una guerra logorante, priva di trionfi, interminabile. Questa
lunghissima alba ha effetti profondi sui soldati al fronte. Per alcuni
è un vero e proprio danno mentale: sono frequenti la depressione, gli
attacchi di panico, il rifiuto della realtà; c'è chi si taglia le
dita, una mano, una gamba, o si acceca un occhio, pur di scamparla, pur
di tornare a casa -- meglio tornare vivi senza un pezzo che interi in
una bara.
Il poeta Ungaretti cambia pelle. La tragedia quotidiana fa sparire la
retorica della guerra come i sogni al risveglio. Altro che "Cinque
Maggio" di Alessandro Manzoni, la glorificazione del grande
condottiero Napoleone e delle sue battaglie, altro che eroi omerici,
qui non c'è traccia di Achille o Ettore, non suonano le fanfare
d'orgoglio, la morte non è mai gloriosa, e nemmeno c'è il Nemico,
non vi è traccia di odio. Ungaretti è un uomo solo in mezzo ad altri
uomini soli. Sa di essere fragile, ciascun soldato lo sa. Ma ciascun
soldato sente qualcosa di nuovo in sé: è l'amore per la vita, per
chi si riconosce uguale nel pericolo, per chi è disarmato nonostante
tutte le armi. "Fratelli" è la parola che spunta sulle labbra, il
nome di tutti quelli che soffrono con te. E la poesia "Fratelli"
inizia con una domanda a loro rivolta.
FRATELLI
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
In questa poesia e in molte altre Ungaretti usa poche parole, e dà
valore a tutto ciò che circonda l'inchiostro: i vuoti, le pause tra
le parole, gli spazi bianchi che rendono un verso come un'isola.
Vedremo in seguito che questa necessità dovuta alla guerra diventerà
poi una necessità di vita (come testimoniano le varianti delle poesie
ungarettiane).
"I fiumi", datata 16 agosto 1916, è una poesia lunga rispetto alle
altre, arriva a ben 69 versi. Descrive un momento di tregua e di
riposo, un bagno nel fiume Isonzo. Il fiume è un simbolo universale di
vita, nascita, purificazione, e lo è anche per Ungaretti («Questo è
l'Isonzo / e qui meglio / mi sono riconosciuto / una docile fibra /
dell'universo»). Il fiume gli ricorda altri fiumi, e rappresenta
così le sue radici molteplici: ragazzo cresciuto nel deserto (il
Nilo); italiano che riscopre le proprie origini (il Serchio); parigino
mondano (la Senna); e infine soldato in guerra. Ogni passaggio
importante nella vita del poeta è segnato da un fiume.
Ma è una tregua -- ecco il motivo di questo abbondare di parole. Le
immagini di desolazione riprendono il sopravvento, la più vivida è
espressa in "San Martino del Carso".
SAN MARTINO DEL CARSO
Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
Questo continuo processo di rarefazione semantica tocca il suo apice
nella poesia "Soldati".
SOLDATI
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie
Il sottotitolo dice "Bosco di Courton luglio 1918". È quindi
estate. La poesia, con quella precisazione che a volte ci si dimentica,
diventa più geograficamente e poeticamente nitida, ma meno haiku [4];
c'è un minore spazio per le interpretazioni. Ma poi, c'è bisogno
di interpretare una poesia così limpida? La parafrasi del testo non è
forse una contraddizione in termini in questi casi? Provo comunque a
dare alcuni spunti...
Ad esempio, noto che quel "Si sta", in apparenza così impersonale,
viene preferito al collettivo "Stiamo": chi parla non è massa né
moltitudine, è una voce di poeta che percepisce tutte le altre voci. E
dice, questo poeta, che anche se la guerra fa cadere gli uomini come
foglie non è una malattia che intacca la pianta o, se è una malattia,
non è in grado di danneggiare la pianta: sarà ancora primavera e
torneranno le foglie. (Ma questo pensiero è forse una forzatura del
testo; chi mi assicura che il poeta avesse in mente la primavera quando
ha coniato la similitudine foglie-soldati?)
La poesia ha una struttura metrica forte, che viene percepita anche da
un ascoltatore distratto. In effetti c'è, ben nascosto, un
alessandrino [5]. La traduzione in francese di "Soldati" fatta
dallo stesso Ungaretti è un endecasillabo: «Nous sommes / tels
qu'en automne / sur l'arbre / la feuille». Il lettore è
autorizzato o no a leggere la poesia ignorando la divisione in
versicoli? Credo di poter rispondere di no: una tale operazione, oltre
a fare violenza al testo, spazza via l'intreccio tra parola e
significato che Ungaretti ha imparato a creare con così tanta pena.
MATTINA
Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917
M'illumino
D'immenso
Questa è una poesia fulminante. È fatta solo di spirito, si potrebbe
dire, e infatti è difficilissimo visualizzare una immagine, un corpo,
un qualunque oggetto che sia di questo mondo. C'è suono, puro suono,
nemmeno colore (quali colori ha l'immenso?). C'è un titolo che dà
la coordinata di tempo alla poesia. C'è la consueta indicazione
diaristica di data e luogo, che permette di perfezionare la ricerca
sulla mappa. Ma la mappa è luce, ha forma di onda e di corpuscolo, è
inafferrabile, è sinestetica, passa da un senso all'altro senza mai
fermarsi.
La perfezione dei versi è, tuttavia, indagabile in qualche modo.
C'è un settenario nascosto. Il legame tra suono e sensazione è dato
anche dalla relazione tra le lettere: il primo verso di 9 lettere ha in
comune 5 lettere con il secondo di 8; la prima vocale del primo verso
coincide con la prima vocale del secondo verso; infine l'ultima
vocale e ultima lettera del primo verso coincide con l'ultima lettera
dell'ultimo verso. L'armonia della costruzione poetica coincide con
l'armonia del creato visto alla luce del mattino.
Dalle "Ultime" alle "Prime"
Nel 1918 la guerra ha fine. L'Italia la vince, senza farci una gran
figura, e conquista le terre irredente (o meglio, le grandi potenze
vincitrici permettono al Regno d'Italia di metterci le mani) nonché
il diritto ad avere un impero coloniale (o meglio, le grandi potenze
chiudono gli occhi su ciò che il Re combina in Africa). Il soldato
Ungaretti torna a casa. Ha già pubblicato "Il porto sepolto" nel
1916, mentre era in trincea; estende la raccolta nel 1919, chiamandola
"Allegria di naufragi"; la stesura definitiva sarà del 1931 e si
chiamerà "L'Allegria".
Quest'ultima raccolta sistema le poesie in ordine cronologico, ma dà
ad alcune un nome in apparenza contraddittorio: le più vecchie si
chiamano "Ultime", le più recenti "Prime". Il motivo si
chiarisce leggendole: dalle "Ultime" alle "Prime" si attenua la
sensazione del male di vivere (lo stesso che Montale saprà descrivere
così bene) e scompare la retorica della patria (ben visibile invece in
"Popolo"); le "Ultime" seguono un percorso poetico ormai
abbandonato, e sanno di morte ("Tappeto", "Chiaroscuro"); le
"Prime" sono foglie appena nate, per usare le stesse parole di
"Fratelli", sono le poesie del naufrago ancora vivo dopo la guerra.
Il simbolo del porto sepolto allude al potere della poesia di svelare
ciò che è sotto l'apparenza, ma che comunque resta in fondo al mare
(cioè in fondo all'animo). L'ossimoro "Allegria di naufragi"
allude alla guerra, un naufragio dal quale i sopravvissuti trovano
nuova forza, voglia di vivere, proprio perché si sono salvati dalla
distruzione. È un titolo che richiama alla memoria il famoso verso de
"L'Infinito" di Giacomo Leopardi, «e il naufragar m'è dolce
in questo mare»; ed è possibile immaginare che mentre il poeta
pensava al titolo, questo verso affiorasse dalla sua memoria, come
suggestione, come forma velata... o come un porto sepolto sotto il
mare. Il titolo definitivo, "L'Allegria", è allora un nodo
sciolto: il poeta canta l'allegria di vivere, fuori dal contesto
storico, fuori anche da sé stesso. La poesia attraversa un percorso di
vita per cercare un approdo di vita.
E appare, dalle "Prime", la fine del lungo percorso. Ungaretti
avrà una piena conversione al cattolicesimo, nel 1928. È Dio ciò che
il poeta cerca ora ("Dannazione": «Chiuso fra cose mortali //
(Anche il cielo stellato finirà) // Perché bramo Dio?»). L'ultima
poesia de "L'Allegria" si chiama, non a caso, "Preghiera".
L'instancabile lavorìo delle onde
Una costante nell'opera di Giuseppe Ungaretti è la "covata": le
poesie sono uova da accudire, contengono l'embrione e l'essere, ma
non sono mai definitive. Dell'uovo hanno la rotondità, ma la forma
è sempre perfezionabile. Ungaretti sfronda, taglia, lima, rivede,
corregge, lungo un arco di tempo che raggiunge e supera i vent'anni.
Il testo è una ricerca continua di forma. Una ricerca sacra.
Questo è anche un lavoro sul colore, ed è un lavoro familiare alla
maggior parte degli scrittori e dei poeti. La prima stesura è spesso
la più facile, ma la stesura definitiva richiede un lavoro estenuante.
Ungaretti usa lo scalpello alla ricerca di una migliore curva, e lo fa
per anni, perfeziona, ma non nasconde nulla. Fa ciò che il mare fa
allo scoglio. Il sudore di una parola tolta, fosse anche la più
minuscola, è lì come una sindone per chi voglia studiarlo.
Sottrazioni: succo di significato che porta alla moltiplicazione di
significato. Lo vediamo all'opera in certi passaggi, soprattutto,
come in quello dall'originario «Ci spossiamo in una vendemmia di
sole» a «Ci vendemmia il sole» ("Fase d'Oriente"). O in «Sono
come / la timida barca / per l'oceano libidinoso», che diventa
«Sono come / la misera barca / e come l'oceano libidinoso»
("Attrito").
Il caso di "Fratelli" può apparire esemplare, ma solo perché
vediamo l'intero processo (dalla prima stesura del 1916 all'ultima
del 1943) accelerato quasi alla velocità della luce. "Fratelli" si
SOLDATO
Di che reggimento siete
fratelli?
Fratello
tremante parola
nella notte
come una fogliolina
appena nata
Nell'aria spasimante
Fratelli
saluto
accorato
nell'aria spasimante
implorazione sussurrata
di soccorso
all'uomo presente alla sua fragilità
Uomo di pena, voce pura
Il soldato Ungaretti, congedato, può tornare a casa. Lo strazio è
ancora nel cuore, non se ne andrà facilmente. E gli anni che
seguiranno la guerra non saranno facili. Ma l'uomo di pena (così si
definisce in "Pellegrinaggio") ha intuito dove lo condurrà il suo
lungo percorso. In trincea ha scritto le poesie "Dannazione" e
"Risvegli" senza mettere il punto interrogativo là dove ce ne
sarebbe stato bisogno, sulle domande "Perché bramo Dio" e "Ma
Dio cos'è". Quelle che nell'inferno carsico erano domande
impossibili per lui, talmente indecifrabili e lontane da non essere
nemmeno domande, ora sono vicine. Non può dare una risposta in forma
di parole, ma sente che può provarci. Le stesure successive hanno il
punto interrogativo.
E l'ultima delle poesie de "L'Allegria", che riporto di
seguito, ha il colore brillante di qualcosa che, sì, può essere
Amore.
PREGHIERA
Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera
Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido
Note
[1] Oppure cercate in rete gli mp3 di Ungaretti (in persona!) che
recita le proprie poesie; ogni tanto qualche filmato passa anche sui
canali satellitari educativi della RAI.
[2] Lo stesso poeta ne è cosciente. In "Italia" dice: «Sono un
frutto / d'innumerevoli contrasti d'innesti / maturato in una
serra».
[3] G. Ungaretti, "Saggi e interventi", a cura di M. Diacono e L.
Rebay, Milano, Mondadori, 1974.
[4] Una poesia de "L'Allegria", "Notte di Maggio", è
composta da 3 versi di 7, 5, 7 sillabe ognuno («Il cielo pone in capo
/ ai minareti / ghirlande di lumini»). Si tratta di un haiku o di una
casualità? Non sono riuscito a venirne a capo.
[5] Alessandrino: Verso di origine francese, composto di 2 emistichi
(due mezzi versi), ognuno accentato sulla sesta sillaba. È considerato
equivalente all'endecasillabo italiano, sia per la somiglianza del
metro sia per il prestigio che possiede.
Prima stesura 09-06-2006
Ultima revisione 09-06-2006
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